https://www.youtube.com/watch?v=TfEHZsOnUQA&feature=youtu.be
COMMENTI sullo spettacolo “A REPUBLICA DEI MATI” di R.Cuppone |
IL GIORNALE DI VICENZA di Stefano Rossi
Ugo, il “mato de guera” di Gigi Mardegan, è tornato nuovamente sui palchi teatrali per raccontare il seguito della sua vicenda e di quella dell’Italia che, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, sta per affrontare le prime elezioni libere.
“A republica dei mati” è andato in scena davanti a un pubblico numeroso e che ha seguito in un silenzio carico di emozione le amare memorie che Gigi Mardegan ha interpretato con grande intensità e immedesimazione. Difficile restare distaccati quando si parla di rastrellamenti, esecuzioni sommarie e difficoltà a tornare alla vita normale dopo una guerra. Ma proprio perché questi ricordi non vadano perduti, Mardegan e Roberto Cuppone (quest’ultimo autore del testo e regista) si sono inventati un “teatro della memoria” che distrugge le consuete regole, destabilizza il nostro tranquillo modo di essere lasciandoci alla fine qualcosa che ci rende più ricchi.
Siamo nel giorno delle prime elezioni libere in Italia, nel 1948. Tutti a votare, comprese le donne ma… non i “mati”. Ma Ugo, “mato de guera”, dopo essere sopravvissuto a due conflitti, battaglie, malattie ed elettroshock, le idee le avrebbe ben chiare. Da una parte del palco, sui muri di una Treviso dimenticata, il manifesto della Democrazia Cristiana, con lo scudocrociato, dall’altra quello del Pci, con la falce e il martello. Simboli sbagliati, secondo Ugo: il primo vorrebbe simboleggiare la protezione, ma ricorda solo il dolore e la paura; il secondo incarna l’anima del lavoro manuale, ma può diventare strumento di rabbia. Il protagonista preferirebbe il partito del “badile e rastrello”: il badile serve sempre, a costruire case come a seppellire gli uomini; il rastrello simboleggerebbe la capacità di raccogliere l’anima popolare.
Il testo teatrale che si apre con queste considerazioni (“siete sani da legare”, afferma Ugo verso il pubblico) parte con ricordi popolari, ma infila subito la strada della denuncia, ricordando l’ “armadio della vergogna” dove per decine di anni furono chiusi i fascicoli delle stragi “archiviate provvisoriamente”, faldoni realmente rinvenuti per caso una decina di anni fa a Roma. E Ugo comincia a elencare le principali fra queste stragi, che si devono a una e all’altra fazione, a fascisti e nazisti in fuga così come a cellule partigiane deviate. L’emozione a seguire questi fatti è fortissima, Ugo/Mardegan non si pone a giudice ma a narratore dei fatti, passando dal personale all’universale, pedalando su una bici-carretto che incarna lo scorrere della vita; a volta pedala con calma, a volte furiosamente, quasi a fuggire.
Ma non fugge, Ugo, anzi, soprattutto quando scopre per la strada un bambino che è suo figlio, un figlio inaspettato, avuto da una delle “signorine” che ora lo crescono nella loro casa chiusa. E trova le parole e i gesti giusti per dargli le armi vincenti per il futuro, armi che a lui sono servite per sopravvivere. E nel finale, nel congedo dal bimbo, gli allunga l’unico sostentamento che possiede, un panino con la sopressa che tanto aveva agognato all’inizio dello spettacolo. E torna a pedalare…
Dieci e lode a Cuppone e Mardegan che hanno concepito e realizzato uno spettacolo che sa sconvolgere, che parte dal basso per raccontare una storia che, a scuola come in altre occasioni, avevamo sempre sentito solo recitare dall’alto. Una storia che ti lascia veramente qualcosa alla fine; ci si rende conto di tanti errori e orrori che hanno costellato la fine dell’ultimo conflitto mondiale. Da una parte e dall’altra. Se lo capiremo, il futuro sarà migliore, come per Ugo che, nella sua “sana follia”, ha saputo mantenere una memoria che non giudica e non perdona, ma serve da insegnamento pratico per non ripetere gli stessi errori.
LA RECENSIONE di Mauro Favaro
La Resistenza. Il sangue dei caduti, soprattutto nei 20 mesi che vanno dal settembre ’43 all’aprile ’45, è stato rivendicato più volte da posizioni spesso contrapposte. A livello letterario gli scritti di BOCCA sembrano scontrarsi con i libri di PANSA ed “Il sangue di tutti” di PITTALIS rischia di sintetizzare le diversità in una tombale equidistanza.
Lo spettacolo portato in scena da Gigi Mardegan, “A republica dei mati”, riprende le fila di quanto accaduto in Italia, in quei venti mesi, sino al giorno in cui l’Italia si diede forma di Repubblica, il 2 giugno 1948.
L’attore è solo in scena. Sullo sfondo la gigantografia di una foto d’epoca cala lo spettatore nel clima di una città che ha appena salutato la fine della seconda guerra mondiale e che vede ora la contesa tra i nuovi simboli repubblicani. A lato alcuni logori manifesti elettorali della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista. Sopra le assi del palco solo una bicicletta-carretto ed un grosso baule di legno, “l’armadio della vergogna” che custodisce le 695 istruttorie sugli eccidi nazifascisti insabbiate per molti anni.
Mardegan rindossa i panni del “mato de guera”, suo vecchio lavoro, e racconta i molti funerali che in quel periodo hanno attraversato l’Italia. Il matto è un ragazzo del ’99 reduce dalla Grande Guerra e scappato dal manicomio di Treviso nel quale era stato rinchiuso. Lui, un ex-protagonista, si ritrova ora escluso dalla storia, ma questo gli permette d’affrontare con freschezza intellettuale il racconto dei massacri delle Fosse Ardeatine, di Sant’Anna di Stazzema e di Marzabotto.
In un lingua trevigiana ben rivista da Emilio Gallina, l’attore alterna divulgazione storica e rappresentazione teatrale. Richiami alle teatro di Fo sembrano emergere dalla chiarezza con cui viene illustrata l’”Operazione Piave”. Brillante l’idea di usare come lavagna il fondo della bici-carretto con cui il matto è fuggito dal manicomio: i segni lasciati dal gesso illustrano i movimenti e le azioni dei fascisti durante il rastrellamento delle truppe partigiane lungo le rive di un fiume già sacro alla patria, ma ormai “stanco di mormorare”.
La lingua sembra impastarsi con la terra nella commozione con cui Mardegan racconta gli stermini di giovani ragazzi veneti, portati a termine anche dopo la conclusione della guerra: dai martiri di Bassano del settembre ’44 a Crispino di Rovigo, da Forno di Canale a Forni di Valdastico. Ed è a questo punto che lo spettacolo di Cuppone sale di tono ricordando i processi sommari e gli eccidi della Cartiera Burgo di Carbonera, in località Mignagola, e del Ponte della Priula, sino ai linciaggi di Codevigo dell’aprile ’45.
Lo spettacolo si conclude con il matto “costretto a rendere conto ad un figlio che non sapeva di avere, ad una posterità che non aveva mai messo in conto. E parlando con il bambino, incoraggiandolo a vivere, trova le parole che per sé credeva d’aver perso”.
Il merito più grande dello spettacolo è quello di riannodare i fili della memoria, di intessere la storiografia ufficiale con una pluralità di memorie che non vanno revisionate o condivise, ma semplicemente accettate. Renan sosteneva che una nazione per sopravvivere abbisogna di obliare e parzialmente mitizzare le modalità con cui si è formata, in questo contesto si percepisce distintamente l’importanza del contributo portato da questo spettacolo affinché l’oblio non sia totale.
LA TRIBUNA DI TREVISO di Alessandro Valenti
“Mai sentìo dei recuperanti? I gera quei che sul’ altopiàno de Asiago i xercava robe de la Grande Guera, baionete, pugnali…” Così Gigi Mardegan ha aperto la sua “A repubblica dei mati” di Roberto Cuppone. Con quell’incedere narrativo unico che lo contraddistingue da tempo sui palcoscenici non solo del Veneto, Mardegan ha quindi puntualizzato che su ad Asiago c’è chi va in cerca di funghi e chi di ricordi. “Ognuno se avelena a modo suo.” E proprio una vetrina di ricordi è stata la protagonista indiscussa dello spettacolo. Ricordi di guerra, dalla 15-18 alla 40-45, e ricordi di una democrazia che nasceva monca in quel 18 aprile del 1948 quando gli italiani sono chiamati alle urne, “done comprese, ma mati no”, per dare parlamento alla repubblica. Il tono si è fatto a questo punto molto amaro. Repubblica? “La seconda Repubblica non è mai nata, perchè non siamo ancora riusciti a seppellire la prima.” E i funerali si facevano allora, come spesso oggi, “per seppellire i sentimenti, non gli uomini.” Dopo un gustoso affondo su Ottavio Bottecchia da Colle Umberto è riapparso Ugo Vardanega, quel reduce dalle trincee del Carso, che in “Mato de guera” ha lasciato sulle scene indelebile impronta di sè. E subito ha dato il segno di una insofferenza per cui “mi son mato de guera – ha detto – ma voialtri insemenìi de pace.” Con l’andar della scena i toni si sono fatti di incredibile drammaticità transitando tra fascisti e partigiani con una rincorsa cruda verso la giustizia vera, per quel suo tono di non completo affrancamento che la società contemporanea si trova ancor oggi a dipanare. C’è una democrazia? Forse sì, o forse no. Certamente incompleta e non quella per la quale in molti hanno creduto fino al sacrificio della vita. Tra i tanti, il delitto maggiore è stato quello di aver tolto la gioventù a molti italiani. E, infine, l’amara constatazione “quando che i ga un fusìl in man i xe tuti precisi.” Sicuramente uno spettacolo da vedere e con il quale confrontarsi.